Codice Libero - Capitolo 5

   

Una piccola pozzanghera di libertà

Basta interpellare chiunque abbia avuto l’opportunità di trascorrere più di un minuto in presenza di Richard Stallman, e se ne ricaverà la medesima impressione: se tralasci i capelli lunghi e qualche atteggiamento un po’ strambo, la prima cosa che noti è il suo sguardo. È sufficiente un’occhiata agli occhi verdi di Stallman per rendersi conto di avere davanti qualcuno che ci crede davvero.

Definire intenso quello sguardo è dire poco. Uno sguardo penetrante, che non si accontenta di osservarti. Anche quando smetti di fissarlo per un gesto di pura cortesia, i suoi occhi rimangono invece bloccati, intenti a trapassarti il cranio come raggi fotonici.

Forse è per questo che nel descriverlo parecchi giornalisti tendono a sottolinearne la visuale religiosa. In un articolo dal titolo “Il santo del software libero”, apparso nel 1998 su Salon.com, Andrew Leonard ne descrive gli occhi come “irradianti la forza di un profeta del Vecchio Testamento.”[27] Un articolo del 1999 sul mensile Wired dipinge la barba di Stallman simile a “quella di Rasputin”[28], mentre un profilo del London Guardian ne descrive il sorriso come di “un discepolo che ha visto Gesù.”[29]

Analogie che, pur avendo le loro ragioni, alla fin fine non colgono il segno. Ciò perché non considerano il lato vulnerabile dell’alter ego di Stallman. Basta infatti osservarne lo sguardo per un certo arco di tempo per notare un sottile cambiamento. Quello che inizialmente appare come un test per intimidire o ipnotizzare l’interlocutore, a una seconda o terza occhiata si rivela come il tentativo frustrato di creare e mantenere il contatto. Se, come lo stesso Stallman ha sospettato di tanto in tanto, la propria personalità è il prodotto dell’autismo o sindrome di Asperger, quello sguardo non fa che confermare una tale diagnosi. Anche al massimo livello di intensità, i suoi occhi rivelano la tendenza a farsi offuscati e distanti, come quelli di un animale ferito che si prepara a morire.

Il mio primo incontro con il leggendario sguardo di Stallman risale al marzo 1999, in occasione della LinuxWorld Convention & Expo di San Josè, in California. Sorta di grande festa per il debutto della comunità Linux, l’evento riportò Stallman all’attenzione dei media specializzati. Determinato a farsi riconoscere i propri meriti, Stallman approfittò della manifestazione per informare il pubblico e i reporter sulla storia del progetto GNU, puntualizzandone gli obiettivi politici.

In qualità di giornalista inviato a seguire l’evento, mi vidi rimproverare apertamente da Stallman durante la conferenza stampa per il lancio di GNOME 1.0, l’interfaccia grafica libera. Senza volerlo, toccai alcune questioni assai delicate fin dalla prima domanda rivolta allo stesso Stallman: “Ritieni che la maturità di GNOME possa danneggiare la popolarità commerciale raggiunta dal sistema operativo Linux?”

“Ti prego di non chiamare più Linux quel sistema operativo”, replicò Stallman, puntandomi immediatamente gli occhi addosso. “Il kernel Linux non è altro che una minima parte del sistema. Molti dei programmi che compongono quel sistema che chiami Linux non sono stati affatto sviluppati da Linus Torvalds. Li hanno invece creati quei volontari cui si deve il progetto GNU, i quali hanno messo a disposizione il proprio tempo per consentire a tutti noi l’impiego di un sistema operativo libero come l’attuale. Il mancato riconoscimento del contributo di questi volontari è una dimostrazione di scarsa educazione oltre che un’errata lettura storica. Ecco perché, riferendosi a quel sistema operativo, ti chiedo di usare il nome corretto, GNU/Linux.”

Mentre prendevo nota di quelle sferzate sul mio taccuino, non potei fare a meno di notare il pesante silenzio piombato nella stanza. Quando finalmente alzai la testa, trovai ad attendermi gli occhi impassibili di Stallman. Timidamente un altro giornalista lanciò una domanda, assicurandosi di usare il termine “GNU/Linux” anziché Linux. Stavolta a replicare fu Miguel de Icaza, leader del progetto GNOME. Fu soltanto a metà della sua risposta che lo sguardo di Stallman smise finalmente di inchiodarmi. Contemporaneamente sentii dei brividi freddi corrermi lungo la schiena. Quando Stallman iniziò una ramanzina a un altro reporter per un presunto errore lessicale, mi sentii più sollevato. Almeno voleva dire che non ce l’aveva proprio con me, pensai.

Per Stallman questi confronti faccia a faccia assumono un significato preciso. Al termine del primo LinuxWorld, la maggioranza dei giornalisti aveva imparato a non usare il termine “Linux” in sua presenza, mentre wired.com pubblicava un articolo in cui lo si dipingeva come un rivoluzionario pre-stalinista cancellato dai libri di storia da quegli hacker e imprenditori desiderosi di mettere in ombra gli obiettivi eccessivamente politici del progetto GNU[30]. Altri articoli vennero pubblicati, e sebbene furono pochi i giornalisti della carta stampata a usare il nome corretto “GNU/Linux”, la maggior parte riconbbe a Stallman il merito di aver aperto la strada alla realizzazione di un sistema operativo libero già 15 anni prima.

Avrei rivisto Stallman solo 17 mesi dopo. Durante questo periodo, avrebbe fatto ritorno almeno una volta nella Silicon Valley, in occasione del LinuxWorld dell’agosto 1999. Pur se non invitato ufficialmente a intervenire, Stallman riuscì a distinguersi per la migliore battuta dell’evento. Accettando il Linus Torvalds Award for Community Service a nome della Free Software Foundation, dichiarò al microfono: “Offrire il Linus Torvalds Award alla Free Software Foundation è un po’ come dare il Premio Han Solo all’alleanza ribelle di Guerre Stellari.”

Stavolta però i commenti non trovarono spazio nei media specializzati. A metà settimana faceva il suo ingresso in borsa Red Hat, Inc., maggiore distributore di GNU/Linux. La notizia non fece che confermare quanto già intuito dai giornalisti, incluso il sottoscritto: “Linux” era diventato una parola chiave all’interno di Wall Street, come già accaduto in precedenza per “e-commerce” e “dot-com”. Mentre il mercato azionario s’accostava al passaggio del nuovo millennio come un’iperbole vicina al suo asintoto verticale, ogni intervento sul software libero o sull’open source in quanto fenomeni politici finiva velocemente nel dimenticatoio.

Fu forse questo il motivo per cui, quando il LinuxWorld giunse alla sua terza edizione nell’agosto 2000, Stallman era del tutto assente.

Il mio secondo incontro con Stallman e il suo sguardo inconfondibile si svolse poco dopo la terza edizione del LinuxWorld. Avendo saputo della sua presenza a Silicon Valley, ero riuscito a organizzare un'intervista all'ora di pranzo a Palo Alto, in California. Il luogo prescelto sembrava ironico, non soltanto perché si trovava nei pressi dell'evento che Stallman aveva disertato, ma anche per via del contesto più generale. All’infuori di Redmond, poche città offrono una testimonianza maggiore del valore economico del software proprietario. Ero curioso di vedere in che modo Stallman – un uomo che ha dedicato gli anni migliori della sua vita a lottare contro la predilezione della nostra cultura per la cupidigia e l’egocentrismo – riuscisse a cavarsela in una città in cui perfino le villette più piccole costano almeno mezzo milione di dollari. Mi misi quindi al volante in direzione sud, partendo da Oakland, nella Bay Area di San Francisco.

Seguii le indicazioni fornitemi da Stallman finché non raggiunsi la sede di Art.net, un “collettivo di artisti virtuali” nonprofit. Situato in un edificio circondato da alte siepi nell’area nord della città, il quartier generale di Art.net appariva, per fortuna, alquanto modesto. Improvvisamente, l’idea di Stallman appostato nel cuore della Silicon Valley si rivelò tutt’altro che strana.

Lo trovai seduto in una stanza semibuia, intento a digitare sul suo portatile grigio. Appena fui entrato, sollevò gli occhi per trafiggermi con uno sguardo a 200 watt. Al suo semplice “Salve” replicai prontamente, ma i suoi occhi erano già tornati sul monitor del portatile.

“Sto giusto finendo un articolo sullo spirito dell’hacking”, disse senza smettere di digitare. “Dai un’occhiata.”

Mi avvicinai, nella stanza scarsamente illuminata. Il testo appariva in lettere verde chiaro su sfondo nero, il contrario dei colori usati nella gran parte dei programmi di elaborazione testi, per cui i miei occhi impiegarono qualche istante per adattarsi. Una volta a posto, mi trovai a scorrere il racconto di Stallman su un recente pranzo in un ristorante coreano. Prima di sedersi, fece un’interessante scoperta: sistemando il tavolo dove si stava per sedere, un cameriere aveva lasciato sei bastoncini anziché i soliti due. Laddove chiunque altro avrebbe ignorato la cosa, Stallman la prese come una sfida: trovare il modo di usare contemporaneamente tutti e sei i bastoncini. Come nel caso dell’hacking, la soluzione si rivelò allo stesso tempo ovvia ma intelligente. Da qui la sua decisione di usarla come illustrazione grafica del pezzo.

Mentre leggevo l’articolo, mi sentii addosso il suo sguardo intenso. Notai un mezzo sorriso, con un punta d’orgoglio ma infantile, aprirsi sul suo volto. Quando gli feci i miei compliemnti per il saggio, il mio commento meritò a malapena un’alzata di sopracciglia.

“Sono pronto in un attimo” rispose, riprendendo a scrivere sul suo portatile. Si trattava di un computer grigio e voluminoso, niente a che fare con gli attuali modelli sofisticati così diffusi tra i programmatori al recente LinuxWorld. Sopra la tastiera ve n'era appoggiata un'altra più leggera, a testimonianza dell’invecchiamento delle sue mani. Verso la fine degli anni ‘80, quando Stallman lavorava 70-80 ore a settimana sui primi programmi e strumenti software per il progetto GNU, il dolore alle mani divenne talmente insopportabile da costringerlo a ingaggiare una dattilografa. Oggi Stallman si affida a una tastiera i cui tasti richiedono una pressione assai minore rispetto a quella delle comuni tastiere.

Quando è al lavoro, Stallman ha la tendenza a bloccare qualsiasi stimolo esterno. Osservandone lo sguardo conficcato nello schermo mentre le dita danzano sulla tastiera, se ne ricava subito l’impressione di due vecchi amici immersi in una profonda conversazione.

Alcuni tasti premuti rumorosamente e la sessione era terminata. Lentamente mise via il portatile.

“Pronto per andare a pranzo?”, chiese.

Raggiungemmo la mia macchina. Lamentandosi per una caviglia dolorante, Stallman camminava zoppicando. La causa era una ferita al tendine del piede sinistro risalente a tre anni prima, ma ancora così dolorosa che Stallman, fanatico delle danze popolari, aveva dovuto interrompere ogni attività di danza. “Amo molto le danze popolari”, si lamentò Stallman. “Il fatto di aver dovuto smettere è stata un tragedia.”

Una tragedia dalle chiare ripercussioni a livello fisico. La mancanza di esercizio lo aveva lasciato con il viso gonfio e una pancia alquanto pronunciata, entrambi assai meno visibili l’anno precedente. Era evidente come avesse messo su parecchi chili, perché quando camminava tendeva a inarcare la schiena come una donna incinta che deve adattarsi a un peso insolito.

La passeggiata venne ulteriormente rallentata perché Stallman decise di fermarsi per sentire il profumo di un cespuglio di rose. Adocchiando un’infiorescenza particolarmente bella, ne solleticò i petali interni con il suo naso prodigioso, inalando profondamente per poi indietreggiando con un sospiro deliziato.

“Mmm, rhinophytophilia[31], dichiarò grattandosi la schiena.

In meno di tre minuti di macchina fummo al ristorante. Seguendo il consiglio di Tim Ney, ex-direttore esecutivo della Free Software Foundation, lasciai scegliere Stallman. Mentre qualche giornalista si divertiva a sparare a zero sul suo stile di vita monastico, la verità è che quando si trattava di mangiare, Stallman si rivelava un vero epicureo. Uno dei vantaggi collaterali di fare il missionario viaggiante per la causa del software libero, stava nella possibilità di assaggiare piatti deliziosi di ogni parte del mondo. “Prendi una della città più note, e molto probabilmente Richard ne conosce i ristoranti migliori” sostiene Ney. “Prova enorme piacere a conoscere le pietanze sul menù e ad ordinare per l’intero tavolo.”

Per il pranzo di quel giorno, Stallman optò per un piccolo ristorante in stile cantonese poco distante da University Avenue, la maggiore arteria cittadina di Palo Alto. Una scelta parzialmente ispirata al suo recente viaggio in Cina ove, nella provincia di Guangdong, aveva tenuto anche una lezione, in aggiunta alla sua personale avversione per le cucine più speziate delle regioni Hunan e Szechuan. “Non sono un grande appassionato dei piatti piccanti”, ammise.

Arrivammo qualche minuto dopo le 11 del mattino e fummo costretti a un’attesa di 20 minuti. Considerato il fastidio degli hacker per ogni perdita di tempo, trattenni un attimo il respiro temendo qualche scatto d’ira. Ma Stallman, contrariamente alle attese, prese la notizia con tranquillità.

“Peccato non essere riusciti a invitare nessun altro”, mi disse. “Ci si diverte sempre di più a mangiare in gruppo.”

Durante l’attesa Stallman si esercitò in alcuni passi di danza. I suoi movimenti apparvero titubanti ma ben eseguiti. Iniziammo quindi a discutere su eventi di attualità. Disse che l’unico rimpianto per non aver partecipato al LinuxWorld era aver perso la conferenza stampa per il lancio della GNOME Foundation. Nata grazie al supporto di Sun Microsystems e di IBM, la fondazione rappresentava per molti versi una rivincita dello stesso Stallman, il quale sosteneva da tempo come il software libero e l’economia del libero mercato non dovessero ritenersi reciprocamente esclusivi. Ciò nonostante, rimase deluso dal messaggio diffuso. “Visto come è stata presentata l’iniziativa, le aziende hanno parlato di Linux senza mai menzionare il progetto GNU”, disse.

Simili delusioni facevano da contrasto alle calorose risposte ricevute oltreoceano, soprattutto in Asia, aggiunse però Stallman. I suoi itinerari di viaggio del 2000 riflettevano infatti la crescente popolarità del messaggio veicolato dal software libero. Sommando le ultime visite in India, Cina e Brasile, Stallman aveva trascorso sul suolo americano appena 12 degli ultimi 115 giorni. Questi viaggi gli offrirono l’opportunità di osservare da vicino il modo in cui il software libero viene tradotto in altri linguaggi e culture.

“In India riscuote l’interesse di molta gente perché consente di costruire la propria infrastruttura informatica senza dover spendere troppo”, mi spiegò. “In Cina, l’idea si è diffusa con maggior lentezza. Accomunare il software libero alla libertà d’espressione è assai più difficile quando quest’ultima non esiste. Eppure nel corso della mia ultima visita, ho ricevuto ottimi riscontri.”

La conversazione si spostò quindi su Napster, l’azienda di San Mateo, in California, venuta alla ribalta dei media pochi mesi prima. La società commercializzava un programma controverso che consentiva agli utenti di cercare e copiare i file musicali di altri appassionati di musica. Grazie alla forza amplificatrice di Internet, tale programma definito “peer-to-peer” si è evoluto de facto in una sorta di juke-box online, offrendo a tutti la possibilità di ascoltare file MP3 via computer senza dover pagare diritti o canoni di abbonamento, suscitando così le ire delle etichette discografiche.

Anche se era basato su software proprietario, il sistema Napster traeva ispirazione dalla posizione sostenuta a lungo da Stallman per cui, una volta che un’opera entra nel regno digitale – in altri termini, quando farne una copia diventa più una questione di duplicare informazione e meno di duplicare suoni o atomi – diviene assai difficile limitare l’impulso naturale degli esseri umani a condividere quell’opera. Anziché imporre ulteriori restrizioni, i responsabili di Napster decisero di approfittare di un tale impulso. Offrendo agli ascoltatori un luogo centralizzato destinato allo scambio di file musicali, l’azienda aveva scommesso sulla propria capacità di guidare il risultante traffico d’utenza verso altre opportunità commerciali.

L’improvviso successo del modello Napster terrorizzò l’industria discografica tradizionale, e a ragione. Appena qualche giorno prima del mio incontro con Stallman a Palo Alto, il giudice distrettuale Marilyn Patel accolse la richiesta presentata dalla Recording Industry Association of America (RIAA) approvando un’ingiunzione contro Napster, ingiunzione successivamente sospesa dalla Corte d’Appello. Ma all’inizio del 2001 quest’ultima stabilì anche l’infrazione alle norme sul copyright da parte dell’azienda di San Mateo[32], una decisione che il portavoce della RIAA avrebbe in seguito proclamato come “una netta vittoria a favore di quanti difendono i contenuti creativi nonché del mercato online legale.”[33]

Per hacker come Stallman, il modello commerciale di Napster appariva controverso sotto diversi aspetti. La decisione dell’azienda di appropriarsi di principi propri del mondo hacker, quali la condivisione dei file e la proprietà comune dell’informazione, cercando al contempo di vendere un servizio basato su software proprietario, generava un segnale equivoco. Nei panni di qualcuno che deve sudare parecchio per far passare sui media il proprio messaggio attentamente studiato, Stallman appariva comprensibilmente reticente a lasciarsi andare su questo caso. Eppure ammise di aver imparato un paio di cose sull’aspetto sociale innescato dal fenomeno Napster.

“Prima di Napster, ritenevo giusta la libera distribuzione a livello privato di opere di intrattenimento”, spiegò Stallman. “Il numero di persone per cui Napster si è rivelato utile mi dice, tuttavia, che il diritto alla redistribuzione di copie, non solo nell’ambito del vicinato ma a livello di un pubblico più vasto, rimane un fatto essenziale e perciò non può essere cancellato.”

Non fece in tempo a finire la frase che si aprì la porta del ristorante e un cameriere ci invitò a entrare. In pochi secondi eravamo seduti in un tavolo d’angolo vicino a una grande parete a specchio.

Il menù del ristorante si aprì come un modulo d’ordine, mentre Stallman operava rapidamente le sue scelte prima ancora che il cameriere portasse l’acqua in tavola. “Involtini di gamberi e tofu”, lesse Stallman. “Sembra davvero interessante, credo che dovremmo provarlo.”

Il commento ci portò a una rapida escursione sul cibo cinese e la sua recente visita in quelle regioni. “In Cina la cucina è assolutamente squisita”, disse Stallman, la cui voce per la prima volta nella mattinata lasciava trasparire emozione. “Tantissimi piatti diversi che non ho mai visto negli Stati Uniti, ingredienti locali fatti con funghi e vegetali tipici di una certa zona. Ero arrivato al punto di tenere un diario soltanto per conservare il ricordo di quei piatti eccezionali.” La conversazione proseguì affrontando la cucina coreana. Nel corso del suo viaggio in Asia nel giugno 2000 Stallman visitò anche la Corea del Sud. Il suo arrivo scatenò una piccola tempesta tra i media locali grazie a una conferenza sul software, prevista per quella stessa settimana, cui prese parte Bill Gates, fondatore e responsabile della Microsoft. Dopo aver visto la propria foto sopra quella di Gates sulla prima pagina del maggiore quotidiano di Seul, la cosa migliore di quel viaggio fu il cibo, ricordò Stallman. “Una volta assaggiai una tazza di naeng myun, una sorta di pasta in brodo fredda”, iniziò a spiegare. “Aveva un sapore veramente intrigante. Generalmente i locali non usano lo stesso tipo di pasta per quel piatto, perciò posso affermare con piena cognizione di causa che si trattò del naeng myun più squisito che avessi mai provato.”

Il termine “squisito” rappresentava un grosso complimento da parte di Stallman. Me ne resi conto perché, qualche istante dopo aver tessuto le lodi del naeng myun, sentii il suo sguardo sfiorare la mia spalla destra.

“Appena dietro di te siede una donna davvero squisita”, bisbigliò Stallman.

Mi girai dando un’occhiata alle spalle della donna. Era giovane, sui venticinque anni, e indossava un vestito bianco con lustrini. Era insieme a un uomo e si apprestavano a pagare il conto. Quando si alzarono per lasciare il ristorante me ne accorsi senza voltarmi perché improvvisamente la luce negli occhi di Stallman diminuì d’intensità. “Oh, no”, disse. “Vanno via. E pensare che probabilmente non mi capiterà di rivederla mai più.”

Dopo un breve sospiro, Stallman si riprese. Il momento mi offriva l’opportunità per spostare la discussione sulla sua reputazione nei rapporti faccia a faccia con il gentil sesso. Una reputazione a tratti contraddittoria. Qualche hacker segnalava la predilezione di Stallman nel salutare ogni donna baciandole la mano[34]. Un articolo apparso il 26 maggio 2000 su Salon.com, invece, lo descrisse come un hacker libertino. Operando l’associazione software libero-amore libero, la giornalista Annalee Newitz presentò uno Stallman che rifiutava i tradizionali valori familiari, con frasi tipo: “Credo nell’amore, ma non nella monogamia.”[35]

Stallman abbassò leggermente il menù non appena sollevai la questione. “Bé, la maggior parte degli uomini sembra volere il sesso eppure tratta le donne in maniera alquanto sprezzante”, disse. “Anche quelle con cui hanno una relazione. Non riesco a comprenderne il motivo.”

Citai un passaggio dal libro del 1999 Open Sources in cui egli confessava di aver pensato di chiamare il kernel GNU mai realizzato con il nome della sua ragazza di allora, Alix, nome che si adattava perfettamente alla convenzione degli sviluppatori di mettere una “x” alla fine del nome di ogni nuovo kernel – è il caso di “Linux.” Dato che quella ragazza era amministratore di un sistema Unix, Stallman precisò come la scelta si sarebbe rivelata un tributo ancor più significativo. Purtroppo, aggiungs, lo sviluppatore che alla fine prese il mano il progetto optò per il nome HURD[36].

Anche se in seguito quella relazione s’interruppe, la vicenda suggeriva una domanda: mentre l’immaginario dei media lo dipingeva come un fanatico dallo sguardo stralunato, non erainvece Richard Stallman un inguaribile romantico, un Don Chisciotte vagabondo che lottava contro i mulini a vento delle grandi corporation nel tentativo di incantare qualche Dulcinea ancora da identificare?

“In realtà non stavo cercando di essere romantico”, replicò Stallman sull’episodio di Alix. “Era anche un modo per punzecchiarla. Insomma, romantico sì, ma anche provocatorio. Sarebbe stata una piacevole sorpresa.”

Per la prima volta quella mattina Stallman rise apertamente. Gli ricordai la faccenda del baciamano. “Si, mi piace farlo”, replicò. “Trovo che sia una dimostrazione di simpatia piacevole per molte donne. Un modo per esprimere amicizia ed essere anche apprezzati.”

Il sentimento di amicizia è sempre stato un tema importante nella vita di Richard Stallman, e su questo punto rispose con dolorosa sincerità: “Non è che ne abbia ricevuta granché in vita mia, tranne forse nella mia mente”. La discussione stava velocemente prendendo una strana piega. Dopo qualche replica a monosillabi, Stallman sollevò il menù, bloccando ogni ulteriore domanda.

“Che ne dici di qualche shimai?”, mi chiese.

Quando iniziarono a portarci da mangiare, la conversazione si mosse come uno slalom tra le varie portate. Parlammo dell’attrazione, così spesso evidenziata, degli hacker per la cucina cinese; delle incursioni settimanali nel quartiere di Chinatown, a Boston, negli anni in cui lavorava al laboratorio di intelligenza artificiale; della logica alla base della lingua cinese e del relativo sistema di scrittura. Ogni mia battuta stimolava una replica assai informata da parte di Stallman.

“L’ultima volta che sono stato in Cina ho sentito qualcuno parlare la lingua di Shangai”, raccontò Stallman. “È interessante da ascoltare. Tutta un’altra sonorità [dal mandarino]. Mi son fatto dire alcuni termini analoghi in mandarino e shanghainese. In qualche caso la somiglianza è evidente, ma mi chiedevo se l’intonazione della voce sarebbe stata simile. Non lo è. Mi interessava scoprirlo perché secondo una certa teoria tale intonazione deriva dalle sillabe aggiuntive andate perdute e poi sostituite. Il loro effetto sopravvive nel tono della voce. Se ciò è vero, e ho studiato le ipotesi che lo confermano in determinate epoche storiche, i dialetti devono essersi sviluppati prima della perdita di queste sillabe finali.”

Arrivò la prima portata, un piatto di tortine di rape fritte. Ci dedicammo entrambi a quelle torte rettangolari, che avevano l’odore di cavolo bollito e il sapore di patate fritte nella pancetta.

Decisi di tornare nuovamente sulla questione del suo isolamento giovanile, chiedendogli se gli anni dell’adolescenza lo avessero in qualche modo condizionato al punto tale da assumere in seguito posizioni impopolari, in particolare la difficile battaglia avviata fin dal 1994 per convincere utenti e media a sostituire l’ormai diffuso termine “Linux” con “GNU/Linux.”

“Credo mi abbia aiutato”, replicò Stallman continuando a masticare. “Non ho mai compreso appieno le implicazioni della pressione dei coetanei su qualcuno. Credo il motivo fosse che venivo respinto senza speranza, così non avevo nulla da guadagnare cercando di seguire le mode del momento. Nel mio caso non avrebbe portato ad alcuna differenza. Mi avrebbero rifiutato ugualmente, così non ci provai neppure.”

A riprova delle sue tendenze anticonformiste, Stallman citò i propri gusti in fatto di musica. Da adolescente, quando la gran parte dei compagni delle medie ascoltava la Motown e l’acid rock, preferiva la musica classica. Il ricordo portò a uno dei rari episodi divertenti di quegli anni. Nel 1964, subito dopo l’apparizione dei Beatles all’Ed Sullivan Show in televisione, quasi tutti i suoi compagni di classe corsero ad acquistare i loro ultimi album e singoli. Fu proprio in quel momento che, disse Stallman, egli prese la decisione di boicottare i “Fab Four”.

“Mi piaceva qualche pezzo popolare dell’era pre-Beatles”, rammentò Stallman. “Ma loro non m’interessavano. Mi dava particolarmente fastidio il modo in cui la gente reagiva a quel fenomeno. Era come dire: chi parteciperà all’assemblea sui Beatles per imparare come adularli al meglio?”

Quando la sua proposta di boicotaggio dei Beatles non ottenne seguito, Stallman cercò altre soluzioni per evidenziare la mentalità da gregge dei coetanei. Raccontò di aver considerato brevemente di mettere insieme un gruppo rock apposta per prendere in giro i quattro di Liverpool. “Avrei voluto chiamarlo Tokyo Rose & Japanese Beetles.”

Data la sua passione per la musica folk internazionale, gli chiesi se avesse mai avuto un’analoga affinità per Bob Dylan e gli altri musicisti folk dei primi anni ’60. Scosse la testa. “Mi piacevano Peter, Paul & Mary”, replicò. “Mi ricordavano alcune grandi parodie musicali[37].”

Quando gli chiesi maggiori dettagli, Stallman mi spiegò che si trattava di canzoni popolari le cui parole originali venivano sostituite da strofe ironiche. Un simile processo di riscrittura è tuttora attività diffusa tra gli hacker e gli appassionati di fantascienza. Tra i grandi classici ci sono “On Top of Spaghetti”, versione rivista di “On Top of Old Smokey”[38], e il capolavoro di “Weird Al” Yankovic “Yoda”, versione sul tema Guerre Stellari di “Lola”, dei Kinks[39].

Stallman mi chiese poi se desiderassi ascoltare una canzone di quel tipo. Al mio cenno positivo, iniziò a cantare, con una voce inaspettatamente chiara:[40]


How much wood could a woodchuck chuck,
If a woodchuck could chuck wood?
How many poles could a polak lock,
If a polak could lock poles?
How many knees could a negro grow,
If a negro could grow knees?
The answer, my dear, is stick it in your ear.
The answer is to stick it in your ear.

Alla fine del pezzo, le labbra di Stallman erano piegate in un mezzo sorriso da bambino. Diedi un’occhiata ai tavoli intorno. Le famigliole asiatiche intente a gustare il pranzo domenicale stavano prestando ben poca attenzione al contralto barbuto lì vicino[41]. Dopo qualche attimo di esitazione, anch’io mi lasciai andare in un sorriso.

“Vuoi quell’ultima di polpetta di mais?”, chiese con gli occhi che gli brillavano. Prima ancora che potessi replicare aveva già afferrato la polpetta con i bastoncini e la teneva sollevata con orgoglio. “Forse me la merito” concluse.

Finite le pietanze, la conversazione assuse le dinamiche di una normale intervista. Stallman si distese sulla sedia cullando una tazza di tè tra le mani. Riprendemmo a parlare di Napster e delle implicazioni per il movimento del software libero. I principi alla base di quest’ultimo avrebbero forse dovuto estendersi ad ambiti limitrofi quali la pubblicazione di opere musicali?, chiesi.

“È un errore trasferire le risposte da un contesto all’altro”, spiegò Stallman, contrapponendo le canzoni con il software. “L’approccio corretto consiste nel considerare singolarmente ogni tipo di opera e vedere quali conclusioni è possibile raggiungere in quell’ambito.”

Secondo Stallman le opere sotto copyright vanno divise in tre diverse categorie. La prima include quelle “funzionali”, ovvero programmi informatici, dizionari, libri di testo. La seconda è per le opere definite “testimoniali”, cioè relazioni scientifiche e documenti storici. Si tratta di lavori il cui senso verrebbe stravolto qualora lettori e altri autori potessero modificarli a piacimento. L’ultima categoria riguarda le opere di espressione personale, quali diari, resoconti, autobiografie. Modificare questi documenti significherebbe alterarne i ricordi o il punto di vista – azione eticamente ingiustificabile nell’opinione di Stallman.

Delle tre categorie, la prima dovrebbe garantire agli utenti il diritto illimitato alla creazione di versioni modificate, mentre per la seconda e la terza tale diritto andrebbe regolamentato a seconda della volontà dell’autore originale. Indipendentemente dalla categoria di appartenenza, dovrebbe tuttavia rimanere inalterata la libertà di copia e redistribuzione a livello non commerciale, insiste Stallman. Se ciò significa consentire agli utenti Internet di generare un centinaio di copie di un articolo, un’immagine, una canzone o un libro per poi inviarle via e-mail a un centinaio di sconosciuti, ebbene così sia. “È chiaro che la redistribuzione occasionale in ambito privato debba essere permessa, perché soltanto uno stato di polizia potrebbe impedirlo”, aggiunge. “È pratica antisociale frapporsi tra una persona e i propri amici. Napster mi ha convinto della necessità di permettere perfino la redistribuzione non-commerciale al pubblico più ampio anche solo per il divertimento. Perché c’è così tanta gente che la considera un’attività utile.”

Quando gli chiesi se i tribunali sarebbero disposti ad accettare uno scenario talmente permissivo, Stallman m’interruppe bruscamente.

“Ecco una domanda sbagliata”, replicò. “Hai spostato completamente l’argomento, passando da una questione etica all’interpretazione legislativa. Si tratta di due aspetti totalmente diversi pur nello stesso ambito. È inutile saltare da uno all’altro. I tribunali continueranno a interpretare le norme attuali per lo più in maniera restrittiva, poiché è così che tali norme sono state imposte dagli editori.”

Il commento portò a una riflessione sulla filosofia politica di Stallman: solo perché attualmente il sistema legale permette agli imprenditori di trattare il copyright come l’equivalente informatico di un contratto di proprietà terriera, ciò non significa che gli utenti debbano necessariamente conformarsi a queste regole. La libertà è una faccenda etica, non legale. “Guardo al di là delle norme esistenti per considerare come invece dovrebbero essere”, spiegò Stallman. “Non sto cercando di stilare una legislazione. Mi sto forse occupando delle applicazioni della legge? Piuttosto, considero le norme che vietano la condivisione di copie col vicino come l’equivalente morale di Jim Crow[42]. Qualcosa che non merita alcun rispetto.”

Il richiamo a quelle politiche portò alla domanda successiva. Quanta influenza o ispirazione avevano per Stallman i leader politici del passato? Come il movimento per i diritti civili degli anni ’50 e ’60, il suo tentativo di guidare il cambiamento sociale poggiava su valori inalterati nel tempo: libertà, giustizia, onestà.

Stallman divideva la sua attenzione tra la mia analogia e una ciocca di capelli particolarmente annodata. Quando allargai la questione fino al punto di paragonarlo a Martin Luther King, Jr., dopo aver dato uno strattone a una doppia punta ed essersela infilata in bocca, Stallman m’interruppe prontamente.

“Non faccio parte di quella squadra, ma gioco la stessa partita” replicò masticando.

Suggerii un altro confronto, quello con Malcolm X. Come nel caso dell’ex-portavoce della Nazione dell’Islam, Stallman si era guadagnato la reputazione di voler creare controversie, alienarsi potenziali alleati e predicare l’autosufficienza contro ogni integrazione culturale.

Masticando un’altra doppia punta, rifiutò anche questo paragone. “Il mio messaggio è più vicino a quello di King”, rispose. “Si tratta di un messaggio universale, di una decisa condanna di certe pratiche ingiuste nei confronti degli altri. Non è un messaggio di odio contro chicchessia. Neppure è diretto a un gruppo ristretto di individui. È un invito rivolto a chiunque ad apprezzare e a sperimentare la libertà.”

Comunque sia, il sospetto nei confronti di ogni alleanza politica rimane un tratto fondamentale del personaggio Stallman. Considerato il disgusto, ampiamente pubblicizzato, per il termine “open source”, diventa comprensibile il rifiuto di prendere parte ai recenti progetti mirati alla costruzione di possibili coalizioni. Nel ruolo di qualcuno che ha passato gli ultimi vent’anni a far sentire la sua voce per sostenere il software libero, il capitale politico di Stallman era profondamente intessuto con quest’ultimo termine. Eppure commenti come quello sul Premio Han Solo all’Alleanza Ribelle di Guerre Stellari del LinuxWorld 1999, non fecero che rinforzare la reputazione, acquisita nell’industria del software, di un conservatore scontroso contrario a scendere a patti con le nuove tendenze della politica o del mercato.

“Ammiro e rispetto Richard per tutto il lavoro svolto finora”, afferma Robert Young, presidente di Red Hat, sintetizzando la paradossale natura politica di Stallman. “La mia sola critica è che talvolta finisce per trattare gli amici peggio di quanto faccia con i nemici.”

L’opposizione di Stallman alla ricerca di alleanze suscita analoghe perplessità quando si considerano i suoi interessi politici al di fuori del movimento del software libero. Visitando il suo ufficio al MIT, ci si imbatte in una copiosa raccolta di articoli sinistroidi sugli abusi dei diritti civili commessi in ogni paese del mondo. Mentre il sito web personale include discussioni su temi quali il Digital Millennium Copyright Act, la War on Drugs e la World Trade Organization.

Considerate le sue tendenze verso l’attivismo diretto, gli chiesi, perché mai non aveva cercato di dar maggior spazio alla propria voce? Perché non ha usato la visibilità guadagnata nel mondo hacker come piattaforma per amplificare, anziché ridimensionare, il proprio credo politico?

Stallman lasciò andare i cappelli annodati e rifletté per un istante sulla domanda.

“Sì, ho esitato ad ampliare l’importanza di questa piccola pozzanghera di libertà”, rispose. “Perché le aree convenzionali e collaudate in cui si lavora per la libertà e per una società migliore sono tremendamente importanti. Non ritengo ugualmente vitale la battaglia a sostegno del software libero. Questa è la responsabilità che mi sono assunto, perché mi è caduta in grembo e ho capito che avrei potuto portare contributi positivi. Ma, ad esempio, porre fine alla brutalità della polizia, alla guerra per droga, alle forme di razzismo tuttora presenti, oppure aiutare qualcuno a vivere meglio, a tutelare il diritto delle donne ad abortire, a proteggerci dalla teocrazia, si tratta di questioni di enorme importanza, ben superiori a ogni mio possibile intervento. Non saprei come offrire contributi efficaci in quei contesti.”

Ancora una volta Stallman presentava la propria attività politica come dipendente dalla fiducia in sé stessi. Considerando il tempo che aveva impiegato per sviluppare e affinare i principi cardine del movimento del software libero, appariva esitante a coinvolgersi in ogni tematica o tendenza che potesse trascinarlo in territori inesplorati.

“Vorrei essere in grado di contribuire in maniera significativa alle questioni di maggiore rilevanza, ne sarei tremendamente orgoglioso, ma si tratta di problemi davvero grossi e quanti se ne occupano, ben più in gamba del sottoscritto, non sono ancora riusciti a risolvere granché”, aggiunse. “Eppure, per come la vedo io, mentre altre persone ci difendevano contro queste grandi minacce ben visibili, io ne ho individuata un’altra rimasta sguarnita. E così ho deciso di combatterla. Forse non è un minaccia altrettanto grande, ma io sono stato l’unico a farmi avanti.”

Masticando un’ultima punta di capelli, Stallman suggerì di pagare il conto. Prima che il cameriere potesse prendere il denaro, però, Stallman aggiunse una banconota di colore bianco. Appariva così chiaramente falsa che non potei fare a meno di prenderla per osservarla da vicino. Era palesemente contraffatta. Al posto dell’immagine di George Washington o Abramo Lincoln, un lato della banconota presentava la caricatura di un maiale. Invece della scritta United States of America in alto, sopra il maiale si leggeva “United Swines of Avarice” (suini uniti dell’avarizia). La banconota era di zero dollari, e quando il cameriere venne a prendere il denaro, Stallman lo afferrò per la manica. “Ho aggiunto uno zero extra alla mancia”, gli disse accennando un mezzo sorriso. Il cameriere, che forse non aveva capito o era rimasto interdetto dall’aspetto della banconota, sorrise e corse via.

“Credo ciò significhi che siamo liberi di andarcene”, concluse Stallman.



[27] Si veda Andrew Leonard, “The Saint of Free Software”, Salon.com, agosto 1998. http://www.salon.com/21st/feature/1998/08/cov_31feature.html

[28] Si veda Leander Kahney, “Linux’s Forgotten Man”, Wired News, 5 marzo 1999. http://www.wired.com/news/print/0,1294,18291,00.html

[29] Si veda “Programmer on moral high ground; Free software is a moral issue for Richard Stallman believes in freedom and free software”, London Guardian, 6 novembre 1999. Queste sono soltanto alcuni dei paragoni religiosi in circolazione. Fino ad oggi la palma del confronto più estremo spetta a Linus Torvalds, il quale, nella sua autobiografia - si veda Linus Torvalds & David Diamond, Rivoluzionario per caso, Garzanti, 2001 -- scrive: “Richard Stallman è il Dio del Software Libero.” Una menzione d’onore spetta a Larry Lessig, il quale in una nota a descrizione di Stallman inclusa nella sua opera -- si veda Larry Lessig, The Future of Ideas, Random House, 2001, p. 270 -- lo paragona a Mosé:

[...] come Mosé, toccò a un altro leader, Linus Torvalds, guidare finalmente il movimento alla terra promessa, facilitando lo sviluppo della parte finale del sistema operativo. Come Mosé, anche Stallman viene contemporaneamente rispettato e vilipeso dagli stessi alleati all’interno del movimento. Si tratta di un leader implacabile, e quindi d’ispirazione per molti, in un ambito criticamente importante per la cultura moderna. Nutro un profondo rispetto per i principi e l’abnegazione di questo straordinario individuo, sebbene abbia grande rispetto anche per coloro talmente coraggiosi da metterne in dubbio il pensiero e poi sostenerne l’ira funesta.

Durante un’intervista conclusiva con Stallman, gli chiesi la sua opinione su quei raffronti religiosi. “Qualcuno mi paragona a uno dei profeti del Vecchio Testamento, e ciò perché allora costoro andavano sostenendo l’ingiustizia di certe pratiche sociali. Sulle questioni morali non scendevano a compromessi. Non potevano essere comprati e generalmente venivano trattati con disprezzo.”

[30] Si veda Leander Kahney, “Linux’s Forgotten Man” Wired News, 5 marzo 1999. http://www.wired.com/news/print/0,1294,18291,00.html

[31] In quel momento mi sembrò che Stallman citasse il termine scientifico della pianta. Qualche mese dopo avrei scoperto invece che rhinophytophilia era in realtà un riferimento umoristico all’attività in corso, ovvero lo stesso Stallman mentre affondava il naso nel fiore e ne godeva. Per un altro incidente divertente in tema floreale, si veda: http://www.stallman.org/texas.html

[32] Si veda Cecily Barnes & Scott Ard, “Court Grants Stay of Napster Injunction” News.com, 28 luglio 2000. http://news.cnet.com/news/0-1005-200-2376465.html

[33] Si veda “A Clear Victory for Recording Industry in Napster Case”, comunicato stampa della RIAA (12 febbraio 2001). http://www.riaa.com/PR_story.cfm?id=372

[34] Si veda Mae Ling Mak, “Mae Ling’s Story” (17 dicembre 1998). http://www.crackmonkey.org/pipermail/crackmonkey/1998q4/003006.htm. Finora Mak si è dimostrata l’unica persona disposta a parlare apertamente di questa pratica, anche se ne avevo già avuto notizia da altre fonti femminili. Superata una certa repulsione iniziale, in seguito Mak riuscì a mettere da parte ogni preconcetto per cimentarsi in una danza con Stallman durante il LinuxWorld del 1999. http://www.linux.com/interact/potd.phtml?potd_id=44

[35] Si veda Annalee Newitz, “If Code is Free Why Not Me?” Salon.com, 26 maggio 2000. http://www.salon.com/tech/feature/2000/05/26/free_love/print.html

[36] Si veda Richard Stallman, “Il progetto GNU” in Open Sources, Voci dalla rivoluzione Open Source, Apogeo, 1999, p. 65.

[37] “Filk” nell’originale inglese. Si tratta di un neologismo nato da un errore tipografico sul termine “folk”, entrato nell’uso comune per indicare le versioni umoristiche delle canzoni popolari [N.d.R.]

[38] Canzone popolare incisa, tra gli altri, anche da Harry Belafonte, “Scarlet Ribbons”, Camden. Il testo della versione “filk” con accompagnamento MIDI è disponibile online all’indirizzo http://www.scoutsongs.com/lyrics/ontopofspaghetti.html [N.d.R.]

[39] Vedi http://www.com-www.com/weirdal/ per il testo di “Yoda” [N.d.R.]

[40] Parodia di “Blowing in the Wind”, di Bob Dylan [N.d.R.]

[41] Per saperne di più su analoghe parodie di canzoni popolari di Stallman, si veda: http://www.stallman.org/doggerel.html. Per ascoltare Stallman cantare “The Free Software Song”: http://www.gnu.org/music/free-software-song.html.

[42] Le politiche di segregazione razziale applicate nel sud degli Stati Uniti all’inizio del XX secolo. [N.d.T.]


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